Danni della guerra al cervello dei superstiti
GIOVANNA REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 12 marzo 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RASSEGNA/AGGIORNAMENTO]
Le due
maggiori sciagure che causa la guerra sono i morti e i danni fisici e psichici ai
superstiti. La concezione politica della guerra come “prosecuzione delle
controversie diplomatiche con altri mezzi” sembra abbia tradizionalmente
ispirato lo studio scolastico della storia dei conflitti, concepito quale freddo
compendio delle ragioni e degli esiti, in qualche caso completati da dati numerici,
senza riferimenti alla tragedia umana che lascia lutti, ferite e cicatrici, in
grado a volte di segnare nei popoli intere generazioni. Una vera coscienza di
cosa sia realmente la guerra si forma sicuramente in coloro che la vedono
entrare come attualità nella propria vita. Una ragione di più per condannare e
rifiutare ogni azione bellica è il danno che causa nel cervello delle persone sopravvissute.
La storia
degli studi sulla patologia psichica da trauma comincia proprio su un campo di
battaglia, prosegue attraverso i disturbi causati dalle esperienze belliche e
giunge fino ai nostri giorni, quando si dimostra che la sofferenza da trauma
psichico è associata a danno cerebrale.
È passato
oltre un secolo e mezzo da quando è stato descritta la prima malattia causata
dalla guerra quale minaccia per la vita delle persone, e qui ne riprendiamo la
sintesi da un saggio di Giuseppe Perrella: “Nel 1871, durante la Guerra civile
Americana, un medico di nome Da Costa[1] descrisse una sindrome che colpiva i soldati
esposti allo stress del combattimento, caratterizzata da spossatezza,
irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed
accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Da Costa focalizzò l’attenzione
sulle manifestazioni cardiovascolari, facilmente rilevabili con la semeiotica
fisica, per l’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a
tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, e si rese conto dell’origine
“riflessa” dei sintomi. Definì, perciò, questa patologia Soldier’s Irritable
Heart (cuore irritabile del soldato).
Da notare
che Da Costa considerò il cuore irritabile parte di una sindrome di
attivazione da stress interessante tutto l’organismo e, anche se ne
studiò solo gli aspetti organici, ne comprese a fondo l’eziologia psichica
dovuta alle condizioni di paura e di tensione estreme[2].
Il cuore
irritabile del soldato fu da allora ribattezzato con l’eponimo del medico
americano, Da Costa’s Syndrome, la cui descrizione è importante perché
rappresenta la prima formulazione nosografica di un disturbo da stress”[3].
La
portata di questa osservazione, analizzata e approfondita più volte nei
seminari dal nostro presidente, si comprende meglio se si tiene conto del fatto
che nell’Ottocento vigeva ancora una dicotomia interpretativa, che considerava
vera patologia quella in cui era dimostrabile diagnosticamente una lesione
organica o un’alterazione patologica delle funzioni esplorabili dell’organismo,
mentre escludeva il danno sine materia, come lo star male per cause
psichiche, dalle condizioni di interesse medico. Il dolore morale era considerato
materia per preti, poeti e narratori, lontano dagli interessi della scienza e
dalle possibilità della terapia, soprattutto nella gamma compresa tra la
disdicevole debolezza della sofferenza amorosa e la colpevole viltà della paura
di fronte al nemico[4]. Da Costa invece, col suo “cuore irritabile”, fa
entrare nella nosografia medica come patologia cardiologica la paura traumatica
dovuta all’esperienza di impotenza del singolo di fronte ad un evento mortale
improvviso, associato a un fragore in grado di evocare anche negli animali la
reazione di fuga, e contro il quale non vale astuzia, intelligenza, forza
fisica o addestramento[5].
La paura,
generata dal cervello come reazione che fa ammalare il corpo, in questi casi è
evidentemente qualcosa di diverso dall’opposto del coraggio richiesto al
soldato valoroso come se si fosse ancora al tempo dei Greci o dell’antica Roma.
In quel caso il timore dell’altro era vinto dalla “coscienza del possesso di
mezzi fisici almeno pari ai suoi e dalla consapevolezza che esprimendo concentrazione
massima, furia, potenza, rapidità di azione, intensità rabbiosa si può indurre
il nemico a fuggire a gambe levate; e questo era il coraggio: determinazione, forza
e fiducia in sé stessi”[6]; in questo caso, invece, che coraggio sarebbe
quello di andare con un semplice fucile munito di baionetta attraverso un
terreno minato contro palle di cannone che, un attimo dopo il tonante e
assordante scoppio, trasformano il campo nemico in un cimitero di brandelli di
corpi sfracellati, sminuzzati e irriconoscibili? Solo incoscienza. Da Costa,
non solo pone per la prima volta all’attenzione della classe medica un disturbo
dovuto a trauma psichico, ma segnala un ritardo culturale a tutta la sua
generazione che, per mancanza di consapevolezza e passiva consuetudine,
continua ad adottare un paradigma anacronistico e del tutto inappropriato alla comprensione
della realtà delle reazioni del cervello e di tutto l’organismo a eventi traumatici
non controllabili, quali quelli che si verificano nelle circostanze belliche.
Dopo l’osservazione
del medico americano, in Europa Emil Kraepelin – uno psichiatra di caratura accademica
internazionale noto per la sua opera nosografica e per il contributo allo
studio della dementia praecox, definita schizofrenia dal suo
allievo Eugen Bleuler – introdusse la categoria della schreckneurose[7], letteralmente “nevrosi da spavento”[8], resa in inglese con fright neurosis e adottata
negli anni seguenti nella denominazione diagnostica di disturbi indotti da
eventi bellici.
Kraepelin
non azzarda ipotesi sui meccanismi alla base della fisiopatologia ma, forse
anche tenendo in considerazione i dettagliati resoconti di Da Costa, non
sottovaluta la risposta neurovegetativa cardiovascolare, ritiene che il
processo sia di origine psichica con estesa e intensa espressione organica, e
cerca di spiegarlo con queste parole: “[una condizione] composta da molti
fenomeni nervosi e psichici insorgenti come risultato di un grave
sconvolgimento emozionale o di un improvviso spavento che abbia accumulato
grande ansietà”[9].
Sigmund
Freud fu molto attento agli effetti della guerra sulla psiche umana e nel 1915,
“consultato circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia
che si producevano in battaglia, fornì la diagnosi di kriegneurose o war
neurosis o ‘nevrosi di guerra’, attribuendone la causa al conflitto che si
determinava fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere”[10].
Non è
superfluo rilevare che fino a quest’epoca, e ancora nei decenni successivi fino
alla II Guerra Mondiale, l’impatto della guerra sulla salute della persona era
riferito quasi esclusivamente all’esperienza dei militari; sebbene già i
bombardamenti della I guerra Mondiale avessero richiamato l’attenzione degli
psichiatri sui civili, solo con il secondo conflitto mondiale, con la guerra
come distruzione di massa di popolazioni inermi, la medicina e la psichiatria
indagano gli effetti della guerra sulle circostanze di vita e sulla salute di
tutti i cittadini.
Dopo Freud,
numerosi medici descrissero sintomi prodotti dallo stress del fronte e
della vita militare durante i conflitti, concentrandosi particolarmente su
segni amnesici o cognitivi “come dimenticare il proprio nome sul campo di
battaglia, essere in uno stato stuporoso o dimenticare dati di conoscenza
personale sempre ricordati o eventi gravi appena accaduti durante il conflitto.
A seguito dei bombardamenti, in altri soldati prevalevano sintomi quali
paralisi, mutismo, cecità, tremori intrattabili e ansia intensa.
In
assenza di fattori etiologici materiali ben riconoscibili che giustificassero
queste manifestazioni, si concluse che il cervello riportasse un danno
concussivo per l’esplosione ravvicinata, che si esprimeva con questa varietà di
sintomi. A questa condizione, nel 1915, fu dato il nome di Shell Shock,
che si può rendere in italiano con Shock da bombardamento (da to
shell = bombardare)”[11].
La
definizione di shock da bombardamento faceva entrare nella competenza medica
la condizione di malessere soggettivo (illness non disease) e, se
da un canto fu positivo perché induceva i medici a occuparsi dei disturbi di
questi pazienti e, seguendo l’impostazione di Da Costa, a somministrare loro
sintomatici, palliativi e antalgici, dall’altro fu involontariamente negativo,
perché questi pazienti venivano ospedalizzati con lunghe o lunghissime degenze,
che favorivano lo sviluppo di inibizione, depressione e consolidamento di
alcuni sintomi psichici derivati dal trauma. Pochi facevano ricorso alla
psicoanalisi, l’unico trattamento psicoterapeutico esistente all’epoca. Quando fu
chiaro che le lunghe ospedalizzazioni favorivano la cronicizzazione e il peggioramento
in una parte considerevole di affetti da shock da bombardamento, si decise
di considerare la sindrome come una “entità puramente psicologica”, con la
conseguenza di far uscire nuovamente questo stato dall’ambito medico, favorendo
le insinuazioni di malattia immaginaria o simulazione, lasciando in pochi casi
una porta aperta per l’ambulatorio psichiatrico con l’assimilazione a una
sindrome isteriforme, ovvero lo sviluppo di sintomi per processi inconsci che finivano
per produrre un vantaggio secondario al paziente.
Alfred Adler,
allievo e poi collaboratore di Freud, lavorando tra il 1915 e il 1920 sui casi
dovuti alla guerra del ’15-’18, distinse due forme di nevrosi dovute all’esperienza
traumatica, una ad insorgenza precoce e l’altra ad insorgenza tardiva. Nello
stesso periodo, Pierre Janet descrisse la scissione della coscienza, per
effetto del trauma, in due processi paralleli che potevano o meno essere
coscienti l’uno dell’altro, dando luogo alla concezione di dissociazione
che è giunta fino a noi, ed è conservata nella definizione dell’amnesia temporanea
da trauma quale “amnesia dissociativa”[12].
Gli studi
condotti durante il primo conflitto mondiale per la prima volta hanno portato
alla distinzione tra disturbi acuti e disturbi cronici causati dai traumi
bellici: “Lo studio delle Nevrosi di Guerra e dello Shell Shock riconosce una causa
acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma si fa carico anche del perdurare
dei sintomi da stress, attribuito ad un affaticamento da combattimento del
sistema nervoso; infatti, Mott (1919)[13] e altri (1915-18, 1920-30) introducono la categoria
nosografica della Combat Fatigue (lett.: affaticamento da combattimento).
Durante la I guerra Mondiale sono diagnosticati 80.000 casi di Sindrome di
Da Costa fra i soldati inglesi. Si va affermando una dicotomia fra sindromi
psichiche (Combat Fatigue, Shell Shock e Nevrosi di Guerra) e
sindromi fisiche prevalentemente cardiovascolari (Cuore irritabile del
soldato)”[14].
Ma non
mancano i passi indietro, in questo percorso di conoscenza clinica. Alcuni autori,
infatti, non ritengono che l’impatto dello stressor, come fenomeno o evento
traumatico, sia di per sé capace di causare un disturbo, e in particolare
quelle sindromi che si chiamavano allora psiconevrosi emozionali, la cui
psicogenesi era sempre e solo attribuita a un conflitto intrapsichico: “Kardiner
e Spiegel (1930-1938) interpretano i sintomi e i disturbi a distanza dagli
eventi traumatici presentati dai veterani della I guerra Mondiale come il ‘perdurare
della rottura delle funzioni egoiche’, diagnosticando una psiconevrosi (Psychoneurosis),
ovvero una nevrosi basata su un conflitto emozionale. Negano però la
possibilità di patologia cronica da stress”[15].
Questo approccio,
tuttavia, non si generalizza e la realtà degli effetti acuti causati dai
bombardamenti del secondo conflitto planetario diviene clinicamente prioritaria
nella medicina di pronto soccorso, come in neurologia e psichiatria: “L’interesse
per le manifestazioni amnesiche e dissociative da stress si riaccende per la
vasta casistica dovuta alla II Guerra Mondiale (1939-45). Sargent e Slater (1941)
propongono le War Amnesic
Syndromes, ossia le sindromi amnesiche da guerra.
Torrie (1944)
studia la patologia psicosomatica da stress (Psychosomatic Syndromes) particolarmente in Medio Oriente ed evidenzia il
suo rapporto con le reazioni amnesiche. Descrive fenomeni amnesici molto
estesi, ad esempio riferisce che poco dopo l’inizio di un combattimento in Nord
Africa il 5% dei soldati che vi prendevano parte non se ne ricordavano più.
Grinker e
Spiegel, che introdussero la definizione di Combat Neuroses, sono gli autori di un volume considerato a lungo
una pietra miliare nello studio degli effetti psicologici dello stress: Men
Under Stress (1945)[16]. Il loro sforzo di sintesi coerente dei vari sintomi
psichici e fisici, attribuiti prevalentemente all’eccessiva produzione di
adrenalina, li porta ad organizzare i molteplici aspetti clinici in distinte
forme di nevrosi”[17].
Gli
orrori bellici consentono di rendersi conto del danno cronico causato sui
civili e non solo degli effetti acuti da trauma. La guerra logora e distrugge la
personalità in alcuni casi, come quando la barbarie degli eserciti si accanisce
in modi diversi di tortura e uccisione sulla popolazione civile, attraverso la
deportazione nei campi di sterminio, dove Ebrei e altre minoranze etniche
venivano affamati, torturati, sottoposti a regimi di lavoro intollerabili e poi
uccisi nelle camere a gas e nei forni crematori.
“Eitinger
nello studio dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, condotto dal
1948 al 1965 prevalentemente in Israele e Norvegia[18], fornisce la prima esaustiva descrizione della sindrome
da stress cronico, caratterizzata da astenia, umore depresso, apatia,
difficoltà di concentrazione, diminuzione della memoria, ansia, cefalea,
disturbi del sonno, incubi, pensieri intrusivi, stato di allerta e tendenza a
preoccuparsi. Definisce questo quadro Concentration Camp Syndrome, ritenendolo espressione di una risposta cronica di
qualità nevrotica allo stress protratto.
Altri studi
confermarono il rilievo di questi sintomi a molti anni di distanza dall’internamento,
rilevando anche sentimenti di distacco ed estraniazione dagli altri e il
ricorrente attualizzarsi di ricordi nella forma di veri e propri incubi diurni
(Thygesen e coll., 1970)”[19].
La prima
edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American
Psychiatric Association, pubblicata nel 1952, per effetto dei numerosi
studi sulla vasta casistica di patologia da stress causata dalla II Guerra
Mondiale, include la categoria diagnostica della gross stress reaction. La
seconda edizione del DSM, edita nel 1968 a una generazione di distanza dagli
eventi bellici, elimina la diagnosi di gross stress reaction, legata
dunque solo alla guerra.
Seguiamo
ciò che accade riprendendo la lettura del saggio del nostro presidente:
“Ma i
temi e i problemi della psicopatologia traumatica furono drammaticamente
riproposti da un altro conflitto: la guerra del Vietnam.
Lawrence
Kolb, assistendo e trattando i reduci della guerra del Vietnam, ebbe l’opportunità
di studiare a fondo le loro condizioni, riportando in auge le conoscenze
acquisite in passato ed apportando rilevanti contributi originali. Fra questi,
il riscontro di un rapporto fra la condizione fisiopatologica sistemica e lo
stato psichico generale, originò da un’osservazione casuale. Infatti gli capitò
di osservare, non visto, i suoi pazienti in attesa nella sua sala d’aspetto:
dov’erano seduti gli volgevano le spalle ed aspettavano il loro turno mentre la
sua segretaria scriveva a macchina. Lo psichiatra americano notò che ogni volta
che il carrello della macchina da scrivere della sua segretaria segnalava la
fine della riga con il tipico suono di campanello, i pazienti sobbalzavano. Avevano
un vero e proprio sussulto sulla sedia. Kolb chiamò questa reazione startle
response e l’attribuì ai livelli di nor-adrenalina cronicamente alti in
queste persone, come conseguenza dello stress”[20].
Sulla
scorta di questi studi, e soprattutto di quelli di Charles Figley sui veterani
del Vietnam[21], si giunse nel 1980 a includere nella terza
edizione del DSM, detto DSM III, la diagnosi di Post Traumatic Stress
Disorder.
L’anno
dopo comincia l’era contemporanea nello studio dei danni causati dalla guerra,
con il progressivo passaggio della priorità dallo studio della sintomatologia
clinica alle indagini sul cervello, favorite dalle nuove metodiche di diagnostica
per immagini, e in particolare dall’impiego della risonanza magnetica nucleare
(RMN).
Oggi, per
avere un’idea generale e complessiva del male che la guerra può fare ai popoli,
si possono leggere le stime storico-statistiche di Clemens e Singer sui danni
delle guerre, che furono inserite nella pubblicazione di un corso tenuto nel
2000 alla Waseda University di Tokyo, insieme con un
articolo di Boothby e Knusden,
da Richard Mollica, che ha dedicato gran parte della propria vita professionale
all’assistenza e all’analisi della psicopatologia dei sopravvissuti dei
conflitti, diventando un riferimento per gli psichiatri di tutto il mondo.
“Richard
Mollica, professore di psichiatria della Harvard Medical
School, è stato tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei primi programmi per l’assistenza e
lo studio dei sopravvissuti alla violenza di massa e alla tortura, attualmente
considerato il progetto pilota in tutto il mondo per la ricerca clinica sul
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD).
Nel 1988
un team di psichiatri dell’Università di Harvard guidato da Richard Mollica fu
inviato a Site 2, il più grande campo di rifugiati cambogiani[22], per uno studio condotto con il sostegno della
World Federation for Mental Health.
Furono intervistati 993 ospiti che riferirono di torture, stupri, prigionie e
rapimento di bambini, per un totale di 15000 diversi episodi traumatici[23]. I casi di depressione clinica acuta e di PTSD
furono stimati, rispettivamente, nell’ordine del 68% e 37%; valori simili
furono riscontrati in altre due popolazioni di rifugiati: i Buhtanesi
che vivono in Nepal e i Bosniaci che vivono in Croazia[24].
Nel 1999,
per effetto degli accordi intercorsi fra i Khmer Rossi e il governo di Phnom
Penh, migliaia di rifugiati rientrarono dai campi: molti di essi presentavano
sintomi di depressione e di PTSD. Lo studio protratto consentì di accertare l’esistenza,
accanto a coloro che presentavano sintomi gravi, di un numero vastissimo di
persone affette da disturbi minori ma persistenti: “ferite invisibili” in grado
di condizionare il resto della vita”[25].
È
interessante notare che, sebbene i programmi ONU fossero improntati alla
massima ampiezza nel sostegno materiale e a notevole disponibilità per l’assistenza
in generale, non prevedevano alcun servizio psichiatrico o di assistenza
psicologica; in altri termini, un secolo dopo Da Costa, c’era ancora una
resistenza culturale a dare dignità di malattia, con diritto di trattamento, alla
sofferenza psichica e psicosomatica. Dopo la presentazione del lavoro svolto da
Mollica e colleghi sui Cambogiani, le autorità dell’ONU decisero di fornire
assistenza psichiatrica ai rifugiati di tutte le guerre del mondo.
La grande
mole di lavoro svolta dal programma di Harvard e da tutti gli altri gruppi
internazionali di psichiatri e psicologici clinici che hanno seguito Mollica e
colleghi, ha portato a conclusioni che si possono sintetizzare in sei punti:
1) picco di malattie psichiatriche tra i civili
sopravvissuti alle guerre;
2) misura rigorosa della natura del trauma;
3) comprensione del modo di concepire la malattia nel
mondo non occidentale;
4) alcune esperienze traumatiche più facilmente
inducono PTSD e depressione;
5) modificazioni organiche permanenti del cervello
indotte dai traumi maggiori;
6) relazione tra sofferenza da stress e disfunzioni
riguardanti il ruolo sociale.
Ma, ritorniamo
alla ricerca sulle lesioni causate dallo stress di livello traumatico all’ippocampo
e alle altre aree vulnerabili del cervello umano.
L’orientamento
verso l’accertamento diretto di danni cerebrali nell’uomo è stato anche indotto
in quegli anni dall’enorme mole di dati della ricerca preclinica che aveva
mostrato vari tipi di danno da stress nel cervello animale, dal livello
molecolare, di neurotrasmettitori e recettori, fino al livello di sistemi e
strutture particolarmente vulnerabili, quali ippocampo, amigdala e corteccia
cerebrale.
“Sulla
base di queste evidenze il gruppo di Douglas Bremner intraprese uno studio per
verificare l’ipotesi del danno organico. Sottoposero ad un’accurata indagine
morfologica mediante RMN un campione di veterani affetti da PTSD, comparandoli
con un gruppo di controllo costituito da persone non affette, ma in tutto
equivalenti per caratteristiche. Risultò che gli affetti da patologia psichica
da trauma avevano un ippocampo di dimensioni ridotte rispetto ai controlli
normali. In particolare, l’ippocampo di destra risultava, in media, inferiore
dell’8%. Inoltre, la gravità del disturbo di memoria era direttamente
proporzionale alla perdita di volume ippocampale. Questa ricerca, condotta nel
1995, evidenziò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano”[26].
Lo studio
che ha registrato la maggiore riduzione di volume dell’ippocampo in affetti da
PTSD è stato condotto da Gurvits in veterani della guerra del Vietnam. Il
risultato ha mostrato una riduzione bilaterale del volume dell’ippocampo del
26% ed una significativa correlazione con il livello di esposizione al
combattimento misurato con la Combat Exposure Scale[27].
Oggi il
riscontro di danni cerebrali dovuti a traumi bellici in reduci e civili è
routine negli accertamenti clinici più accurati, mentre le osservazioni
sperimentali forniscono nuovi elementi di conoscenza sui danni da stress.
La
ricerca prosegue anche perché le terapie attualmente disponibili per i disturbi
da stress sono realmente efficaci in meno della metà dei pazienti. Un
aspetto particolarmente rilevante riguarda l’interessamento di cellule non
nervose nelle modificazioni maladattative indotte da condizioni traumatiche, di
rischio, pericolo e paura. Studi recenti, passati in rassegna da Flurin Cathomas e colleghi[28] hanno evidenziato come cellule non nervose
nelle regioni limbiche del cervello all’interfaccia sinaptica, nell’unità
neurovascolare e in altri siti di comunicazione intercellulare, mediano i due
possibili effetti dello stress cronico: le risposte adattative (pro-resilient) favorenti la resistenza e le risposte
maladattative, dannose per l’organismo.
Gli
autori dello studio sostengono che una piena conoscenza degli effetti sulle
cellule non neuroniche del cervello possa favorire un approccio “whole body” alla ricerca sui disturbi da stress, che
dovrà ancora chiarire meccanismi e processi che consentono alla barbarie della
guerra di segnare a lungo e a volte rovinare per sempre la vita dei
sopravvissuti.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa
Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna
Rezzoni
BM&L-12 marzo 2022
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94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1]
J. Douglas Bremner, Does Stress Damage the Brain?, p. 27, Norton, New
York 2002.
[2] Da Costa J. M., On irritable heart: A clinical study of a form of
functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of
Medical Science 161, 17-52, 1871.
[3] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pp. 13-14, Dipartimento di
Neuroscienze dell’Università Federico II, Napoli 2005.
[4] Cfr. Monica Lanfredini & Giuseppe
Perrella, Coraggio e Paura da Aristotele a Freud. Relazione al Seminario
Permanente sull’Arte del Vivere, p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2006.
[5]
È ciò che connota e
caratterizza la differenza tra guerra antica, fatta di duelli di forza e abilità
“uomo contro uomo”, e guerra moderna, dominata da cannoni e mine. La concezione
mitizzata del coraggio degli eroi del mondo classico rimane, ma la realtà è del
tutto cambiata: l’antico doveva sapersi battere con forza fisica e armi bianche,
imparando a ripararsi per evitare l’insidia delle frecce; il moderno si trova
di fronte a una realtà in cui l’uomo fa la guerra usando strumenti che
assomigliano a quelli dei cataclismi naturali, più che a delle armi per rendere
letale un singolo su un altro.
[6] Giuseppe Perrella, Il
coraggio e la paura nei secoli, p. 2. BM&L-Italia, Firenze. Relazione
letta agli incontri presso il Caffè storico Gilli (Piazza della Repubblica,
Firenze) maggio 2006, tratta da uno studio condotto in precedenza per l’Istituto
di Clinica Psichiatrica dell’Università Federico II.
[7] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 14.
[8] Cfr. Saigh P. A. & Bremner J. D. (editors),
Posttraumatic stress disorder: a comprehensive text, Allyn & Bacon
Needham Heights, Massachusetts, 1999, cit. in J. Douglas Bremner, op. cit, p. 71.
[9] Emil Kraepelin, Psychiatrie, Vol. V, p. 737, Auflage,
Barth, Leipzig (1896-1985), qui citato nella
traduzione di G. Perrella dalla versione inglese di Jablensky
(G. Perrella, op cit., p. 14; v. per la citaz.
completa da Kraepelin), adottata anche da J. Douglas Bremner, op. cit. p. 71.
[10] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 15.
[11] Giuseppe Perrella, Il
Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 16.
[12] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
16-17.
[13] Cfr. F. W. Mott, War neuroses and shell shock. Oxford
University Press, London 1919.
[14] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
18.
[15] Successivamente Abram Kardiner
ammette questa possibilità interpretandola in chiave psicoanalitica come
sindrome che “può incorporarsi nella personalità in modi differenti”, come si può
leggere nel capitolo dedicato alle nevrosi traumatiche di guerra nell’American
Handbook of
Psychiatry (Silvano
Arieti, Manuale di Psichiatria in tre voll., vol. I, p. 242,
Boringhieri, Torino 1985).
[16] Grinker R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.
[17] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
18-19.
[18]
Leo Eitinger, Concentration Camp Survivors in Norway and Israel. Allen and
Unwin, London 1965.
[19] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
19-20.
[20] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
23-24.
[21] Charles Figley (editor), Stress Disorders among Vietnam
Veterans. Brunner-Mazel, New York 1978.
[22] “Site 2” fa parte dei campi per
i rifugiati che furono allestiti dall’ONU fra la Thailandia e la Cambogia.
[23] Richard F. Mollica, Invisible Wounds, Scientific
American Vol. 282, Number 6, 36-39, 2000.
[24] Richard F. Mollica et al., JAMA
282, 433-439, 1999.
[25] Giuseppe Perrella, op. cit., pp.
32-33.
[26] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
41.
[27] Giuseppe Perrella, op. cit., p.
42.
[28] Cathomas F., et
al., Beyond the neuron: Role of non-neuronal cells in stress disorders. Neuron
– Epub ahead of print doi: 10.1016/j.neuron.2022.01.033, February 17, 2022.